Materia e Luce di Jean Claude Lemagny

Materia e Luce di Jean Claude Lemagny

Il linguaggio del dotto tende a riportare tutto a se stesso, la parola del poeta vuole cogliere il più piccolo particolare delle cose. La scienza realizza il suo progetto quando dimostra le identità più profonde. L’arte realizza il suo proposito quando evoca l’irriducibile.
In questo la fotografia, che altro non sa che mostrare, è arte per eccellenza. Tutto ciò che deve alla chimica e all’ottica lo perde davanti al suo potere di fare apparire un universo incontaminato.
La fotografia è ritiro, ricezione, accettazione, rifiuto di collegare le cose con luoghi comuni.
E’ il luogo del “mai più”. Così e non diversamente, una volta per tutte, ciò che è mai si verificherà due volte.
L’opera d’arte è una cosa fatta dalla mano dell’uomo, e che, tuttavia, tenta di mostrarsi come un oggetto della natura. Un’opera tecnica prolunga il pensiero all’interno del nostro ambiente. Tutto quello che di familiare ha un’opera d’arte, come tutto ciò che vi si trova di misterioso, ha per noi lo stesso modo di essere di un’albero o una roccia.
Il fotografo è un’artista emblematico. Lascia fare all’universo. Ma non può mai arrivarvi del tutto.
La diffidenza davanti agli artifici che permettono di manipolare l’immagine fotografica alla sua origine, in un sentimento sano che ciò che c’è di più fotografico nella fotografia è anche quello che c’è in essa di più artistico; è questo che non bisogna tradire.
Resta solo il fatto che è vano dissimilare ciò che ogni foto deve a diverse manipolazioni e convenzioni.
Davanti a questo doppio vincolo sta la libertà dell’arte di non trascurare alcunché di possibile.
La fotografia ha rivelato tali risorse plastiche e sensuali che la loro esplorazione è la parte migliore della sua ricerca contemporanea.
Ma queste ricerche visive acquisiscono la loro ragion d’essere quando si interpongono davanti al sorgere di una presenza e alla freschezza di un’apparizione.
Quando le bellezze retiniche si prestano compiacentemente all’analisi, esse si decompongono e svaniscono. Si conosce la vanità delle spiegazioni pedanti della regola aurea. E troppe immagini si sotterrano sotto le loro alluvioni, come un guado del deserto.
In fotografia, registrazione e manipolazione sono in promiscuità. Ma arte e decorazione sono inconciliabili. Il desiderio di armonia è comune ad entrambe, anche il ritmo, ma esse differiscono per la parte più intima e decisiva delle forme: la tensione che abita il ritmo. La decorazione è in questo mondo e si integra con esso; l’opera d’arte si costituisce in un mondo separato. E’ per questo che essa è autonoma, e deriva il suo essere dal suo equilibrio interno.
Arte e decorazione hanno visto variare i loro limiti nella storia. Nelle prime arti esse non si ponevano come oggi. Certi grandi artisti (Matisse) hanno gioito della loro contiguità. Ma la loro separazione è permanente. Esse hanno un bell’essere nello spazio fisico, ma non sono in uno stesso spazio estetico.
Ogni realtà può essere armoniosa, ma non tutta la realtà è viva. Il jazz ci offre un buon esempio.: né la regolarità, né la forza, né l’equilibrio del tempo sono sufficienti, c’è bisogno dello “swing”, questa impercettibile differenza fa che tutto si riapra, prenda vita e rilancia l’invenzione melodica. Così come la respirazione e i battiti del cuore ci fanno vivere, ma ci ricordano anche la nostra morte.
L’uomo è libero fin quando è un essere per la morte. E l’estetica è al centro della condizione umana, perché essa è chiamata a riconoscere le differenti forme di tensione che animano le opere, e non soltanto le loro armonie decorative.
La tensione che si manifesta particolarmente nella fotografia è la tensione tra materia e luce. In effetti la fotografia è l’arte dove questi due aspetti del reale si manifestano non più per imitazione e finzione ma in diretta, per contatto.
Tra la facoltà di registrare le più piccole deviazioni, delineamenti e granuli di materia, le sue più leggere rugosità, e la facoltà di riflettere la luce stessa, di entrare nella sua trasparenza, s’instaura una tensione fondamentale da il cui il fotografo creatore non deve separarsi.
E qui le opere più belle sono quelle che elevano questa tensione più in alto. Da una parte lo spessore e la durata, il reale delle cose viste da un particolare taglio, reale chiuso su stesso. “Opacità chiusa, per niente, su se stessa” (Heidegger). Massa che si da in tutti gli accidenti della sua superficie e le sue spaccature, e si ritrova anche densa e impenetrabile in ogni suo pezzo, in ogni suo frammento.
Dall’altra parte l’impalpabile vibrazione della luce, viene dal fondo dell’universo, per sospendere il ricordo nella traccia fotografica.
Tutti i pezzi della materia tendono a migrare lentamente gli uni verso gli altri. La loro vocazione profonda è di agglomerarsi. Il fotografo può sceglierli nel momento in cui essi si solidificano in un bassorilievo continuo; può anche sceglierli quando nuotano, dispersi, come schegge nella luce.
La luce è sorgere ed esplosione, essa accorre da un punto lontano, dal fondo del cielo. Poco importa che essa sia così spesso rimbalzata tra tempi, essa non si attarda mai, si intensifica, si disperde nella sua diluizione, ma sempre si precipita altrove. Il tour de force della fotografia è di canalizzarla, di immobilizzarla un istante. La materia vuole durare, la luce vuole salvarsi. I loro incontro è il primo soggetto di ogni fotografia. L’equilibrio da trovare è ogni volta tra una materia opaca e densa, che la luce tende a dissolvere per diluizione, e una luce di passaggio che schizza, zampilla e sorge alla vista quando si congiunge alla materia.
Una lotta nascosta, “swing” sempre rimbalzante, nutre la qualità fotografica.
Altre tensioni, tra l’ombra e la luce, tra i pieni, i vuoti e le dissolvenze, la fanno anche. Ma quella fra la materia e la luce costituisce la natura della fotografia.
Jean-Claude Lemagny

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